Geoffrey Baumann, il supervisore degli effetti visivi di Black Panther, crea il Wakanda con realismo richiamando lo splendore del continente africano
Prima di Black Panther, Geoffrey Baumann si è occupato di altri film Marvel, ma soltanto come editor della computer grafica. Quando gli hanno affidato l’incarico di supervisore, il regista Ryan Coogler ha subito specificato la sua priorità: Black Panther doveva ricordare davvero l’Africa.
Ispirato a un personaggio dei fumetti apparso per la prima volta nel 1966, Black Panther (o T’Challa) è un principe destinato a diventare re del Wakanda, un regno nascosto, con una tecnologia avanzata, mai vista prima nel MCU (poiché il Wakanda è il maggior possessore di vibranio, il metallo con cui sono stati costruiti lo scudo di Captain America e il braccio del Soldato d’Inverno). Conoscendo l’importanza di questo luogo per l’universo Marvel, Baumann ha interpretato la creazione cinematografica del Wakanda come una sfida. Ha dichiarato:
«Volevamo creare una grande città realistica, mai vista prima. Non volevamo che somigliasse ad Asgard: doveva essere un luogo appartenente al nostro mondo, raggiungibile in volo, tecnicamente, per chi ne conoscesse l’ubicazione. Inoltre, dovevamo considerare il forte impatto sociale del Wakanda e della sua tecnologia, il che non ci ha affatto resi più tranquilli».
Ma per fortuna Baumann non era solo. Aveva centinaia di artisti pronti a consultarsi con lui, nonché la scenografa Hannah Beachler (fra i suoi maggiori successi, la collaborazione con Beyoncé per i contenuti audiovisivi dell’album Lemonade), la costumista Ruth E. Carter (L’asilo dei papà, Malcolm X, Amistad), la direttrice della fotografia Rachel Morrison (Sound of My Voice, Mudbound), il team della ILM [una delle aziende più illustri nel campo degli effetti speciali, ndr] e altri responsabili della produzione del film.
Insieme sono riusciti a creare, fisicamente e in digitale, una piccola Africa ad Atlanta. Hanno preso spunto dagli edifici che si trovano davvero nel continente africano e dai paesaggi che si possono osservare nei Safari.
Com’è cominciata l’avventura di Black Panther per Baumann?
«Avevo appena finito di lavorare a Doctor Strange quando ho partecipato al primo incontro con Ryan [Coogler], e sono rimasto colpito dalla sua percezione di Black Panther. Il Marvel Cinematic Universe si distacca molto dal genere di film che ha sempre realizzato. Conoscendo i personaggi di Prossima Fermata Fruitvale Station e Creed – Nato per Combattere [film di Coogler, ndr], mi chiedevo cosa si sarebbe inventato per questo supereroe.
Quando l’ho visto per la prima volta, ho subito avuto l’impressione di avere davanti una delle persone più spontanee, gentili e piacevoli che potessi conoscere. Ero onorato di far parte di questo processo creativo. Ryan è così aperto e disponibile che vorresti semplicemente abbracciare la sua visione delle cose e realizzarla con fedeltà estrema. Sapere che lui avrebbe introdotto un personaggio tanto forte nel MCU mi ha reso felice».
Come hanno comunicato lui e il regista, che non conosceva il linguaggio tecnico degli effetti speciali?
Baumann ha ammesso di non essere il tipo che bombarda i suoi collaboratori di tecnicismi. Preferisce, invece, sviluppare gli effetti visivi in modo tale da rendere la storia più completa. Gli effetti visivi non sono il processo creativo, ma parte di esso. Hanno pensato di ricreare l’ambiente africano prima di aggiungere gli edifici del Wakanda, che sono stati progettati di pari passo con lo sviluppo della storia.
Prima di girare il film, la troupe Marvel è andata in Africa per studiare l’ambiente e le luci del continente (come è avvenuto per la realizzazione del classico Disney La Bella e la Bestia: gli animatori e i responsabili della fotografia sono stati mandati in Francia per studiare le luci, i colori e l’atmosfera francese, completamente diversi dalla percezione statunitense). Volevano creare uno skyline simile a quelli che si possono osservare a New York e Singapore, che ricordasse una grande metropoli, ma con l’architettura caratteristica dell’Africa, che non assomiglia affatto alle rigide forme rettangolari del paesaggio newyorchese. Tutti gli edifici presenti in Wakanda (realizzati con ILM), infatti, rappresentano ciò che si può davvero vedere in Africa.
Al momento delle riprese, Coogler aveva ideato quella che veniva chiamata “La Bibbia”: un insieme di immagini che raffiguravano edifici, monumenti, forme, tribù, colori, motivi e schemi africani. Queste immagini sono diventate parte integrante degli effetti speciali, frutto di una forte collaborazione fra più settori della produzione cinematografica.
Il film si apre con una sequenza, interamente realizzata tramite i VFX, che mostra il Wakanda. Com’è nata questa idea?
«È una sequenza di cui vado molto fiero. Non volevamo dare per scontato che tutto il pubblico conoscesse le origini di Black Panther ma, al tempo stesso, non volevamo dare una spiegazione troppo lunga. L’idea di questo prologo è nata, penso, dopo la lavorazione. In quel momento ci siamo accorti che serviva un’introduzione alla storia.
Stavamo realizzando la tecnologia del Wakanda, una vera e propria sfida per noi. Abbiamo deciso che tutto doveva basarsi sul suono: le vibrazioni sonore fanno levitare gli oggetti. Abbiamo pensato che la polvere di vibranio [una polvere che fluttua e crea ologrammi, vista nel laboratorio di Shuri] potesse essere utilizzata per raccontare le origini di Black Panther. Ci avrebbe permesso di creare un retroscena drammatico, nostalgico e artistico, specialmente nei momenti in cui si sgretola e compone nuove forme.
Per alcuni fotogrammi ci siamo rivolti a Perception NYC [azienda che si occupa di Motion Graphics, ndr], che ci ha aiutati a realizzare questa idea con sagome e pupazzi. Dopo aver scoperto quale piega avrebbe preso, l’abbiamo affidata agli Storm Studios [azienda norvegese specializzata in post-produzione cinematografica, ndr]. Erano sette piccole scene che ne formavano una sola.
Questa sequenza è molto importante perché raffigura la schiavitù e la colonizzazione dell’Africa, che per Ryan era un tema fondamentale del film, poiché il Wakanda è l’unico territorio africano non colonizzato. Credo che gli Storm Studios abbiano fatto un ottimo lavoro con l’illuminazione della scena, che è bella da vedere ma anche significativa, e si collega direttamente a Oakland.»
Qual è stato l’approccio alla tecnologia del film?
La tecnologia del Wakanda doveva basarsi sul vibranio ed essere più moderna rispetto alla nostra tecnologia attuale. Le idee principali erano due: ispirarsi ad alcuni esperimenti degli specializzandi in ingegneria di tutto il mondo e creare qualcosa che non avessimo mai visto nel MCU, che non avesse niente a che fare con Tony Stark o con lo S.H.I.E.L.D.
Perception NYC ha contribuito alle ricerche e, dopo diverse ipotesi, si è arrivati a un tipo di tecnologia basata sulle onde sonore e all’instabilità del vibranio (che può diventare pericoloso ed esplodere).
Il Wakanda ha imparato a usare l’energia di questo materiale nelle armi, nella medicina, nella tecnologia. Tutto ciò che questo popolo fa, ruota attorno allo sfruttamento del vibranio. Nel film ce lo ricordano costantemente.
L’elemento più rappresentativo dell’innovazione tecnologica è il laboratorio di Shuri, in cui alcuni schermi riportano le vibrazioni sonore. Probabilmente la scena più difficile da realizzare è stata l’inseguimento in auto, con il sedile (in polvere di vibranio) che quasi crea una realtà aumentata, grazie alla quale lei può essere in Corea. Per quella sequenza sono stati utilizzati diversi modelli utili per creare una proiezione dello spazio che lasciasse intendere che Shuri poteva trovarsi in due posti contemporaneamente. La cosa ha richiesto molto tempo perché tutto ciò che succede durante l’inseguimento doveva essere chiaro allo spettatore.
Quali sono state le sfide più grandi durante la realizzazione di Black Panther?
«Un’altra scena di cui sono orgoglioso è la simulazione sulla cascata. L’abbiamo girata ad Atlanta a marzo. La luce spesso non collaborava e il tempo cambiava di continuo, perciò è stato un periodo di riprese molto difficile. Abbiamo dovuto sostituire tutta l’acqua, vera, in computer grafica. Anche se avevamo vasche piene d’acqua (che abbiamo utilizzato per i movimenti dei piedi, che spostavano acqua vera), siamo dovuti ricorrere interamente al digitale. Così, siamo riusciti a trasmettere la sensazione di pericolo che avvolge quegli istanti.
Scanline [azienda tedesca che si occupa di VFX, ndr] ha lavorato agli effetti visivi ogni giorno durante le riprese. L’ambientazione era così vasta che ha richiesto centinaia di ore di lavoro e una metodologia di completamento molto lenta. E non è il tipo di ambientazione o di effetti speciali sui quali si può cambiare idea all’improvviso. Credo che, alla fine, ci fossero 120 cascate simulate.»