La parola passa ora a Jonas Rivera.
Queste sono le domande a cui ha risposto:
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C’è una scena che ci hai fatto vedere che ha carattere molto ‘noir’, quasi horror. Impossibile, tra l’altro, non riconoscerne la citazione di un altro capolavoro del cinema.. Non sembra molto adatta ai bambini, avete pensato (sicuramente sì) a come potrebbero reagire di fronte a una scena simile?
“Grazie, è una bella domanda. E mi sento di rispondere dicendo che il film è per noi. Non abbiamo mai realmente pensato di produrre film per bambini. Questo perché anche noi, in realtà, siamo dei bambini, ci comportiamo come loro. Amiamo il cinema del presente, del passato, i film da tutto il mondo. E tutto questo lo riversiamo poi nei film che facciamo. Ovviamente il nostro auspicio è che il film possa piacere al pubblico, in senso lato. Uno dei nostri obiettivi è quello di garantire più livelli di lettura. [La storia deve essere compresa sia dagli adulti che dai bambini, ma con livelli di approfondimento differenti]. Molto spesso uso come “cavie” i miei figli per i film che produco. Hanno dai 7, 10 e 13 anni. Voglio realmente capire cosa riescano a comprendere della storia, e mi stupiscono sempre. Mi viene in mente, ad esempio, quando gli feci vedere Inside Out. C’era, alla Pixar, la perplessità che il film potesse essere troppo esoterico, troppo psicologico, troppo lontano dall’essere comprensibile per un bambino. In realtà l‘hanno capito meglio degli adulti. Teniamo sempre a mente che il nostro audience è molto ampio, ma anche intelligente e capace di comprendere.
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In queste saghe è sempre difficile trovare una motivazione per andare avanti. Cos’è stato quel tema che vi ha convinto a dire “ok, andiamo avanti, facciamo Toy Story 4, ne vale la pena.”?
Allora, quando abbiamo iniziato questo progetto ci siamo detti che saremmo potuti andare avanti solo se ci fosse stata una ragione valida, una storia da raccontare. Dovevamo innanzitutto tenere conto che il finale di Toy Story è stato assolutamente perfetto e bellissimo così. Abbiamo puntato soprattutto sul personaggio di Woody (che è il vero protagonista di Toy Story) e sulle sue caratteristiche. Per Andy le avventure sono importanti, però solo al fine dello svolgimento della trama più in generale. Abbiamo riflettuto molto sul ‘disegno più grande’, e siamo arrivati alla conclusione che valesse la pena continuare a raccontare la storia di Woody anche dopo i suoi anni con Andy. Woody rimane un personaggio che è cresciuto, ha (quasi) sempre fatto la scelta giusta, ma non è arrivato fino in fondo, quindi abbiamo pensato valesse la pena approfondire ulteriormente questo aspetto. - Per quanto riguarda il restyling di Bo Peep, si sono sentite delle lamentele degli animalisti che hanno chiesto di rimuovere il gancio da pastorella che ha sempre con sé. Come avete reagito? Pensate di modificare qualcosa?
Innanzitutto vorrei dire due parole sul personaggio di Bo. Siamo stati molto fortunati ad avere nel team delle donne che si sono occupate del suo personaggio, sia per l’animazione che per lo sviluppo della sua storia. L’abbiamo rinominato “Team Bo”. Sono state molto attente a come dovesse muoversi, come essere vestita, come comportarsi, evitando i soliti stereotipi e scelte scontate. Hanno voluto realizzare un personaggio deciso, forte. Per quanto riguarda la domanda degli animalisti, sì, abbiamo avuto modo anche noi di sentire queste reazioni. Ma il fatto è che Bo deve essere un personaggio immediatamente riconoscibile. Peraltro lei adora le sue pecore. Non ha mai usato il gancio per maltrattarle, ma solo per muoversi più agilmente, soprattutto in questo sequel. Non dimentichiamo poi il fatto che rimanga pur sempre un giocattolo. - Nessuno come voi della Pixar riesce a mettere in scena i nostri sentimenti in maniera così stupenda. Quando selezionate i collaboratori, al di là della capacità tecnica, quali domande gli fate per capire che hanno abbastanza cuore per lavorare per voi?
Quello che conta sono le persone. Le persone contano più delle idee. Magari qualcuno può venire a proporti un’idea interessante, però quello che conta sono le potenzialità delle persone, e da queste poi possono nascere delle idee. Ed è questo che cerca la Pixar: potenziale.
Faccio riferimento anche alla mia esperienza. Con la Pixar sono riuscito a crescere. Siamo diventati un gruppo di persone che condividono lo stesso obiettivo, che amano il cinema e i cartoni animati, nonché i film della Disney con cui siamo cresciuti. Vogliamo semplicemente che i nostri prodotti abbiano un senso. - Ho una domanda un po’ scherzosa: com’è cambiato nel tempo il tuo rapporto con i giocattoli? Provi un senso di colpa nei confronti del destino che gli viene riservato, quando devi buttarli o darli via?
Sì, assolutamente sì. Anche da papà, quando si tratta di disfarsi di qualcuno dei giocattoli dei miei figli vengo preso da terribili sensi di colpa, mi sembra quasi di essere un traditore. Se vogliamo Toy Story ha permeato nelle nostre esistenze anche in questo senso. -
Come vedi il rapporto tra i giocattoli più ‘tradizionali’ e quelli odierni, come potrebbero essere le console o il computer?
Pensando al personaggio di Forky abbiamo riflettuto proprio sul modo in cui qualcosa di molto ‘primitivo’ poi possa sviluppare valore, e anche sul contrario. Cioè cos’è che possa distrarre un bambino dal giocattolo inteso nella maniera più ‘tradizionale’, quindi giochi elettronici e via dicendo, quindi è un argomento molto valido. Io sono una persona molto “analogica”, mi piace che i miei figli abbiano a disposizione giocattoli ‘vecchio stile’; è interessante riflettere su come si potrebbe sviluppare questo tema in Toy Story. C’è anche un cortometraggio che mostra Bonnie a casa di alcuni amichetti che non fanno altro che giocare ai videogiochi, ed è stata per noi l’occasione di osare, di essere coinvolti in una ‘battaglia’; è chiaro che con tutte queste alternative informatizzate c’è il rischio che i giocattoli si sentano abbandonati, cosa che rivediamo anche nel film dal punto di vista di Forky. Dobbiamo pensare che non sempre esista una risposta a tutto.